Il linguaggio come alibi
Domanda: che differenza c’è tra una candela e una candela femminista?
Una risposta: nessuna.
Un’altra risposta: a una è stata attribuita arbitrariamente attraverso il linguaggio una caratteristica e all’altra no.
Un’altra risposta: è una domanda tendenziosa.
Un’altra risposta ancora: le condizioni di lavoro per cui una candela femminista è stata fabbricata tutelando diritti, salari, condizioni di lavoro delle donne (o delle persone di qualsiasi genere) che l’hanno creata.
Un’altra risposta ancora: la cera di cui è composta è stata ottenuta avendo cura di non maltrattare le api o con procedimenti industriali o artigianali non inquinanti.
Un’altra risposta: entrambe sono oggetti che possono essere venduti e fabbricati da aziende, così come da piccole artigiane.
Un’altra risposta: la candela femminista è una candela inserita in un contenitore di vetro (così da evitare l’increscioso spargimento della cera) con sovrimpressa una scritta considerata femminista da chi produce la candela. In genere frasi motivazionali e aggressive sulle donne come persone forti, come Feminist AF (As Fuck), Burn the Patriarchy, Boss Lady can change the world, Badass. Sono oggetti di uso domestico, se non proprio privato. Spesso hanno delle profumazioni particolari. Tutte le candele femministe sono profumate ma non tutte le candele profumate sono femministe. Vanno usate in momenti di relax, per ricaricarsi, quel momento-tutto-per-sé nella retorica del self care come cura del corpo, che solo le self loving women davvero sanno avere. È un momento di empowerment privato e bisogna goderne. In questo caso l’inglese è la lingua di un certo femminismo liberal.
Quindi cos’è una candela femminista? È un oggetto, è merce, è simbolo, è politica, è ornamento, è piacere olfattivo, è atmosfera.
Linguaggio del marketing e linguaggio della politica
Cerco delle traiettorie.
A un certo punto a metà del ventesimo secolo le agenzie pubblicitarie hanno iniziato a vendere il prodotto con una strategia di comunicazione che puntava più sui valori legati al consumo di quel prodotto che al prodotto in sé. Emozioni personali, valori sociali, sensazioni legate al corpo, al piacere, all’amore, alla forza, alla potenza.
Una ventina d’anni dopo dai movimenti sociali la forma dello slogan ha assunto sempre più importanza nella comunicazione politica dal basso. Gli slogan erano già usati nella propaganda di regime e in quella di partito ma questi erano forti, ironici, trasgressivi.
Gli slogan sono semplici, si ricordano bene, sono già un meme, un elemento che si diffonde autonomamente. L’origine etimologica di slogan infatti è nel gaelico «grido di guerra».
«Il corpo è mio e lo gestisco io» è un elemento memetico (facilmente memorizzabile per la rima). Due esempi con lo stesso incipit: «Fate l’amore non fate la guerra» (basato sulla contrapposizione fare/non fare e il primo termine, quello proposto è già molto positivo, per cui il secondo, quello ostracizzato, risulta ancora più negativo) e «Fate l’amore con il sapore» (basato sulla rima). Due ambiti completamente diversi in cui uno è uno slogan politico e l’altro è un claim pubblicitario ma entrambi ugualmente efficaci. La forma breve è uno dei possibili punti di incontro nel linguaggio tra politica e marketing, da quando la comunicazione politica istituzionale ha iniziato a usare tecniche pubblicitarie come lo storytelling.
Internet ha cambiato tutta la comunicazione. Ha messo in moto delle dinamiche culturali fino a quel momento inedite. Qualsiasi elemento culturale, grafico, artistico, politico può e poteva essere manipolato, deriso, risignificato, appiattito, deistituzionalizzato e disintermediato. Lo può diventare in una comunicazione non più dall’alto in basso, cioè da gruppi editoriali a lettrici-lettori e spettatrici-spettatori. Chiunque può arrivare a chiunque (tranne forse in Cina). Emerge così la figura del prosumer, che non fruisce solo dei contenuti ma li crea e li distribuisce tramite alcune piattaforme private. Tutto è un elemento condivisibile, ogni cosa è potenzialmente virale. Lo sono anche i diritti civili ma ancora di più la lotta per i diritti civili.
Chi lotta per i diritti civili, soprattutto Lgbtqi+, è un target di mercato già pronto, ha già una propria cultura codificata da cui attingere e ha già dei valori precisi da usare nel marketing.
La classe media dal con un reddito abbastanza elevato da poter effettivamente spendere.
A questo punto dell’evoluzione della cultura, in cui la lotta per i diritti civili è sia un valore che un meme, si sono create le condizioni per la comparsa sulla Terra della Candela Femminista, così come della Candela Queer o della Candela Antirazzista (che spero non sia mai bianca).
Più aumenta la complessità maggiore è la difficoltà di trovare un modo utile per racchiuderla. Si può usare una parola sola, una parola contenitore, come intersezionale, queer, trans.
Parole che contengono tante identità, tante pratiche e tante lotte ma che rischiano, a seconda dei contesti, di ottenere l’effetto opposto, cioè di diventare totalmente opache come delle pietre tombali. Ma una parola, una sola parola, definita ed evocativa, è proprio quello che serve al marketing. L’altra è distendere e scomporre ognuno di questi termini nei suoi elementi costitutivi. Si può dire «attenzione a genere, razza, classe, abilismo ecc.» o si può dire «Intersezionale».
La parola intersezionale viene coniata dall’attivista e giurista Kimberlé Crenshaw già come termine necessario per indicare un particolare atteggiamento che tiene in considerazione non una singola oppressione ma il punto di incontro che ognun* di noi porta dentro di varie oppressioni, quindi anche con un’autorialità precisa (non che ci sia il copyright). La parola queer nasce in ambito di movimento anti identitario, legato a quello per la consapevolezza su Aids e Hiv, poi entrato nell’accademia nella formula di «teoria queer», fino a indicare l’intera popolazione Lgbtqia+ e in particolare dei prodotti culturali. Per cui una serie TV definita queer può avere quasi indifferentemente personaggi lesbici o gay o non binary, con un range di riferimento piuttosto ampio.
Molta politica è diventata pop, popolare, disintermediata, antigerarchica (anche se poi l’accademia ci sta mettendo del suo per ristabilire certe gerarchie) e quindi riutilizzabile, deformabile ecc.
Il linguaggio come washing
Alcune fonti come Wikipedia italiana indicano che il termine greenwashing, usato per la prima volta nel 1986, sia stato creato sullo stampo di whitewash. C’entra parzialmente col razzismo perché viene usato anche per denunciare condizioni migliori dei bianchi rispetto alle persone razzializzate, ma vuol dire imbiancare. In senso esteso coprire qualcosa, nascondere, dare una patina di nuovo.
Se parliamo di economia e washing, una delle sfere semantiche a cui ci si ricollega è quella del riciclo dei soldi sporchi, che in inglese è proprio Money laundering, letteralmente lavaggio di soldi. Sempre in inglese si dice Wash your mouth out, quando si è detto qualcosa di offensivo. In italiano esiste la versione «lavati la bocca col sapone», dove il sapone diventa figurativamente la soluzione contro lo sporco.
Il washing insomma non è lavare via lo sporco, serve a coprirlo. È la patina di cera per far sembrare nuove le mele.
Di qualsiasi colore sia, green, blue, pink, rainbow, il washing è solo una patina per proporre dei valori di facciata, per far sentire chi consuma con la coscienza pulita. È un gioco a due, chi produce e comunica e chi decide, più o meno consapevolmente, di fidarsi.
Le modalità di produzione, le condizioni di lavoro, i contratti, sono i presupposti per cui un’azienda sia green, blue, pink o rainbow.
Considerando la struttura legata all’espressione dei social, che sono aziende private e non solo luoghi pubblici, per esempio, possiamo notare che non permette un linguaggio autodeterminato e ironico. Non si può scrivere frocio senza essere bannat*. Se proprio si vuole parlare di «politicamente corretto» questa è un’applicazione pedissequa di un controllo contro i discorsi d’odio che contempla il linguaggio con forme e usi molto esigui.
Contemporaneamente la destra, soprattutto l’estrema destra parlamentare, attraverso determinate parole sta facendo un washing democratico. Da anni si appropria di parole come libertà, nell’accezione di libertà dalle regole, in un’ottica di deregolamentazione e privatizzazione sia del mercato che della sicurezza della cosa privata, in contrasto con la cosa pubblica, che invece chiede, chiede e chiede. La libertà si chiede e si chiede non per il pubblico e per la collettività ma dal pubblico e dalla collettività. Allo stesso tempo alcune ricorrenze vengono considerate divisive, in un modo per cui dal momento che si enuncia la divisività di qualcosa di fatto la si sta attuando.
Il linguaggio della destra è sempre prescrittivo e mai descrittivo. Qualsiasi cosa dica sottintende ad altro.
La differenza maggiore e sostanziale di questo periodo di lotte politiche rispetto al passato, che pure avevano riflettuto a lungo sul linguaggio anche come sistema di oppressione o quantomeno come indicatore di un sistema di oppressione, è la quantità di informazioni. Se da un lato il linguaggio si è appiattito su una polivalenza di mercato, dall’altro chi fa attivismo e divulgazione online ha assunto una postura, diciamo, ortopedica, cioè il compito di raddrizzare. E quindi la polivalenza memetica nonsense cede il posto a un discorso preciso fatto di definizioni, spiegazioni, informazioni dettagliate, slogan. Una concisione che vira spesso verso il marketing delle idee, di sé e del proprio capitale.
Eppure queer è proprio l’opposto di straight, queer è proprio l’opposto di ortopedia.
A questo punto non c’è una soluzione perché ci sono diversi contesti. Femminista è ancora una donna che brucia i reggiseni, non si depila e odia gli uomini, ma è anche una compagna che può scegliere di non portare il reggiseno, può scegliere di depilarsi e può scegliere come rapportarsi a persone di genere maschile, ed entrambie i significati coesistono nella società. Ogni parola, femminista, queer, intersezionale, può essere vuota, stereotipizzata, negativa e positiva, ricca, potente. O può essere, come intersezionale, del tutto incomprensibile proprio alle persone oppresse per genere, razza e classe.
Come si può evitare questa cosa? Con la confusione, con il caos, con la poesia, gli eufemismi, i giri di parole, l’imprecisione, la vaghezza?
[Pubblicato su Jacobin n. 14]